
Scarica il numero
I personaggi più noti usciti dalla fantasia creativa dello scrittore Simone Tempia sono Sir, l’uomo che pone interrogativi, e il maggiordomo Lloyd, che prontamente risponde con sagacia spiazzante proponendo spunti di riflessione e soluzioni che aprono nuove prospettive sulla realtà. Il dialogo quasi epigrammatico tra i due interlocutori, nato come sequenza quotidiana di post su Facebook e diventato una serie di volumi di successo (Vita con Lloyd, In viaggio con Lloyd), è interessante perché ci costringe a ragionare su una dinamica che – nell’epoca dello scroll infinito e dell’esposizione passiva a qualsiasi contenuto, informazione o disinformazione che scorra sullo schermo del nostro smartphone – sta finendo in disuso: la capacità di fare domande, di scavare nella realtà e nelle persone per conoscerle, per comprenderle.
Una competenza antica, che appare semplice e banale, ma che invece in un ambito delicato come quello della relazione di cura può rivelarsi davvero trasformativa: ne siamo ancora capaci?
«Più che non essere in grado di fare domande, mi pare di vedere che non abbiamo più il tempo di ascoltare le risposte»
dice lo scrittore, che, come il suo immaginario Lloyd, affronta il discorso aprendo prospettive nuove. «Partiamo da una domanda semplice: “come stai?”, e chiediamoci: quand’è l’ultima volta che ci siamo ricordati di fare questa domanda a un nostro amico, alla nostra compagna o compagno, al nostro collega? Soprattutto, abbiamo prestato davvero tutta la nostra disponibilità alla risposta? Abbiamo avuto la curiosità, l’attenzione, il tempo, la dedizione, la cura del metterci in ascolto di quel che l’altro ha da dirci davvero?».
La serie di quesiti che Tempia contro-propone è spiazzante nella sua semplicità e a questi – che già aprirebbero infinite riflessioni – ne aggiunge uno che considera fondamentale:
«Abbiamo il coraggio e la voglia di chiedere a noi stessi come stiamo e darci il tempo di trovare una risposta? Prendere consuetudine col farsi questa domanda la sera, prima di andare a dormire, è importantissimo. Come stai Simone? Come stai oggi, dopo la giornata che hai vissuto? Chiederselo significa desiderare di comprendere noi stessi, riscoprirsi interessanti. È un esercizio che non facciamo praticamente più».
Interrogarci è un esercizio fondamentale per compiere il passo successivo, ovvero aprirsi all’altro e con la stessa dedizione e attenzione avere il tempo di mettersi in ascolto.
«Dalle domande nasce un arricchimento reciproco, perché nella visione che gli altri hanno di sé troviamo la chiave per capire noi stessi, per capire chi siamo, per leggere il mondo che ci circonda. Per farlo, dobbiamo superare la scusa del non avere tempo, frenare il nostro continuo andare di fretta»
insiste Tempia. «Perdiamo un tempo enorme in questi buchi neri di stimoli costanti, di scrolling veloci che sono comodi appunto perché non richiedono domande, non richiedono riflessione, ma sono puro intrattenimento a ciclo continuo, che ha vita molto breve, passa e non lascia nulla. La percezione errata di avere il mondo a portata di dita non significa avere l’umanità a portata di vita. L’umanità richiede tempo e attenzione. Di conseguenza, pensiamo di capire il mondo, ma in realtà non capiamo e non vogliamo capire l’umanità. Siamo pieni di dati, di nozioni, di certezze che ci vengono date e di risposte pronte all’uso, ma abbiamo perso la curiosità di scavare oltre la superficie, il desiderio di comprendere anche ciò che è invisibile e spaventoso: la sofferenza, la paura, la malattia, la morte. Quali sono le domande giuste per immergersi in questi argomenti rispetto ai quali ci sembra di affrontare un esercizio imbarazzante, sconveniente, faticoso?».
Se gli interrogativi sono utili per abitare queste profondità e trovarne il senso, serve poi una semantica adeguata, un vocabolario che sappia restituirne in maniera corretta la realtà, anche ridefinendola, ove necessario. Soprattutto se, come ha fatto lo scrittore, si entra nel campo che definisce “dell’innominabile”.
«Io sono laureato in giurisprudenza non ho una formazione da semiologo, non sono un linguista», premette Tempia, «però facendo lo scrittore il tema della lingua, delle parole è ormai dentro la mia vita. Lavorando quotidianamente con le parole, posso affermare che abbiamo abdicato al ruolo che biblicamente è stato dato all’uomo, cioè, nominare le cose. Oggi abbiamo un vocabolario molto approssimativo, usiamo una lingua che sfiora i concetti senza mai abbracciarli puntualmente, si avviluppa in luoghi comuni e frasi fatte. Non dobbiamo avere paura delle parole, nemmeno delle parole che riguardano mondi complessi e delicati come quelli della malattia e della cura. Bisogna ricominciare a dare i nomi alle cose perché ciò che ha un nome non spaventa, esce dall’ombra e si mostra così com’è. Una cosa nominata può essere meravigliosa o terribile, può preoccuparci e assorbire i nostri pensieri, ma quando la nominiamo esce dal regno del terrore. Diventa consapevolezza, si lascia padroneggiare».
Nell’ambito delle Cure Palliative, nei vissuti delle persone che le attraversano, questo fare i conti con la realtà e ”dirla” fino ad arrivare alla consapevolezza è un cammino faticoso e doloroso, ma non può essere eluso, rimandato, evitato.
«I temi della malattia e della cura da un lato, sono circondati da questa innominabilità che spaventa»
osserva Simone Tempia, «dall’altro, sono spesso affrontati con una retorica lontana dalla realtà. Ci piace semplificare con la favola del guerriero buono contro la malattia cattiva che non ha niente a che vedere con la complessità, le sfumature e le montagne russe di emozioni, sentimenti e pensieri che attraversa chi sta vivendo una malattia inguaribile. Trovare parole aderenti a queste sensazioni è difficilissimo, è molto faticoso e dispendioso. Ma finché non lo si fa, finché non riscopriamo il potere trasformativo dell’interrogarci, non sarà possibile affrontare davvero fino in fond0 e grazie a loro, la nostra natura più vera e più intima»