Cura

In hospice la diversità è normale

L’approccio con etnie, culture e fedi differenti è la prossima grande sfida del mondo medico-assistenziale. Le cure palliative rappresentano un fondamentale campo di sperimentazione di rapporti umani e professionali per questa frontiera della cura

Il corpo e l’anima. La morte come fine di tutto, come passaggio, oppure come nuovo inizio. Il destino come forza immanente o come percorso di volontà. Il senso del sacro e il rapporto con la divinità ma anche, scendendo dal cielo alla terra, il ruolo dell’individuo all’interno di un contesto sociale, la famiglia, il clan, l’etnia, il rapporto tra generi, il concetto di infanzia, di età adulta, di vecchiaia. E, continuando: l’abbigliamento, i gesti, il contatto, il concetto di puro o impuro, l’alimentazione, il rapporto con la tecnologia o con la chimica. La rabbia o il fatalismo con cui si affrontano una malattia o la morte. Quando il mondo della medicina Occidentale apre la sua finestra sul tema della multiculturalità, si trova di fronte a un orizzonte sconfinato di variabili e di quesiti che l’esplosione recente e accelerata della globalizzazione e dei flussi migratori lascia ancora per lo più con risposte e buone pratiche di riferimento parziali e senza protocolli certi e univoci. Una fase di esplorazione che si presenta ancora più aperta per una disciplina, le cure palliative, già di per sé pionieristica per le caratteristiche della presa in carico e le tematiche che accompagnano il percorso del paziente in hospice, strettamente interconnesse con il senso della vita e della morte, punto di maggiore densità di ogni cultura e credo religioso.

Grazie allo sforzo di umanizzazione dell’approccio e di personalizzazione del rapporto tra l’équipe medico- assistenziale, il paziente e la sua cerchia degli affetti, le cure palliative rappresentano forse il contesto più favorevole per comprendere come il mondo della cura possa e debba relazionarsi con una platea di pazienti che, inevitabilmente, sarà sempre più variegata. «Gli hospice tendono per definizione ad avere un approccio laico al paziente e ai suoi bisogni, affinché le cure palliative possano trasmettere il proprio beneficio a tutti, indipendentemente dalla provenienza etnica o dal credo religioso e senza che un punto di vista particolare possa influenzare l’approccio al paziente» conferma Sharon Nahas, Responsabile Medico e Direttore Sanitario della Fondazione Hospice Seràgnoli. «La cultura e il credo fanno parte della persona e della sua individualità e quello cui gli hospice tendono è un modello di cura e assistenza il più possibile personalizzato. È un concetto che va al di là della multiculturalità: ogni persona porta con sé una storia, un mondo di rapporti e di valori ogni volta unico e diverso.

Relazionarsi con questa infinita diversità è il nostro impegno quotidiano, l’atteggiamento che adottiamo è metterci al servizio delle differenze, non pretendere di uniformarle a un modello, a uno standard». In questo modo, «ogni richiesta, dalla candela che deve ardere per una notte intera dopo il decesso ai riti del lavaggio della salma e della vestizione, diventa un’occasione di arricchimento per noi e per tutti i nostri operatori», continua Nahas. Ciò che conta e fa la differenza, più che le conoscenze e le competenze relative alle modalità di approccio interculturali, è di fatto la capacità di ascolto e di comunicazione, il sapersi davvero mettere in relazione con il paziente e la sua famiglia. «Nella maggior parte dei casi, la prima barriera non è tanto culturale o religiosa, ma linguistica», conferma Sharon Nahas: «Quando si supera questo limite, quando si trova un metodo di comunicazione, le differenze e le diffidenze reciproche si stemperano, si sviluppa quel patto di cura basato sulla fiducia che permette una relazione positiva».

L’approccio multiculturale è parte di quella visione olistica propria delle cure palliative, che prevede un’assistenza attenta e rispettosa della persona, pronta a comprendere e accettare anche le risposte individuali in relazione alla cultura di appartenenza. Il rapporto tra curante e paziente – soprattutto in un contesto come quello dell’hospice dove i “temi ultimi” sono quotidianità – rappresenta molto più di un incontro tra persone, diventa il concretizzarsi di uno scambio tra diverse visioni del mondo: «Operatore sanitario e assistito devono, quindi, trovare uno spazio da dedicare alla comprensione reciproca e un tempo per sciogliere, attraverso una comunicazione reale, tutti quei fattori che influenzano i loro modi di dare e ricevere assistenza» dice Nahas.

Per una volta, il lato “dell’offerta sanitaria sembrerebbe essere più avanti rispetto a quello della “domanda”. Lo confermano i numeri, ancora molto bassi a livello nazionale, degli accessi di pazienti stranieri in hospice. Se il mondo delle cure palliative è pronto ad accogliere e accompagnare le diversità, rimane ancora per lo più sconosciuto agli oltre 5 milioni di stranieri residenti in Italia, appartenenti a diverse etnie e nazionalità, «il che non stupisce, considerando quanto per gli stessi italiani sia un tema ancora piuttosto alieno…», osserva Nahas. «Le ricerche e la letteratura scientifica degli ultimi anni concordano nell’evidenziare come lo scarso accesso ai servizi di cure palliative da parte di nuclei stranieri sia dovuto alla presenza di numerose barriere, fra cui l’incompatibilità tra la filosofia delle strutture erogatrici di cure e le credenze religiose, culturali e spirituali, ma anche le disparità sanitarie, economiche, la scarsa fiducia nelle istituzioni mediche, i criteri di ammissione negli hospice», ha evidenziato Greta Chiara Pagani, psicologa dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, durante l’ultimo Congresso Nazionale della Società Italiana di Cure Palliative. «Senza voler generalizzare e banalizzare il fenomeno migratorio, si rileva come spesso i nuclei stranieri occupino le zone periferiche cittadine e si trovino a dover affrontare sofferenze economiche e situazioni di marginalità e di scarsa integrazione sociale. Tali variabili in un contesto di malattia terminale rischiano di tradursi in una solitudine esistenziale e in un isolamento sociale che concorrono nel determinare una scarsa qualità delle cure ricevute. Infine, la comunicazione in ambito transculturale emerge come uno degli ambiti cruciali sui quali si gioca la capacità di erogare livelli di assistenza di buona qualità».

Gli stranieri, la salute, la legge

Gli stranieri residenti in Italia al 1 gennaio 2019 erano 5.255.503, un dato numerico in costante
crescita, così come il numero di stranieri che si rivolgono alle strutture sanitarie italiane.
L’art. 32 della Costituzione afferma il diritto alla salute come diritto della persona, collocandolo nel
novero dei cosiddetti diritti umani, intesi come diritto inalienabile dell’individuo.
Con la Legge del 6 marzo 1998, n.40, il legislatore amplia il concetto di accesso alle cure e di tutela
della salute, estendendo allo straniero presente sul territorio nazionale, anche non in regola,
i programmi di medicina preventiva e, dunque, non più solo le cure essenziali.
Nel Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000, tra gli obiettivi di salute che lo Stato si prefigge
di raggiungere, compare il rafforzamento della tutela dei soggetti deboli e, nello specifico,
degli stranieri immigrati. L’accordo Stato-Regioni del 2013 ha assicurato, per la prima volta, a
livello nazionale, la parità di trattamento tra cittadino italiano e la persona straniera, sotto il profilo
dell’assistenza sanitaria e dell’accesso alle cure per i soggetti più vulnerabili.
La finalità è quella di giungere a una piena attuazione di quel diritto alla salute inteso come
fondamentale diritto dell’individuo, e interesse della collettività, in un’ottica di tutela
sanitaria e di piena integrazione sociale e culturale.

Le competenze culturali richiedono formazione

Il tema delle competenze culturali che medici e professionisti sanitari devono possedere per affrontare
nella maniera migliore il tema dell’interculturalità all’interno dei luoghi di cura è ormai parte di
un ampio dibattito internazionale.
A offrire una ricca messe di spunti interessanti è uno studio recentissimo (pubblicato a fine luglio 2020) condotto
da un panel di università americane dal titolo “Cultivating Cultural Competence:
How Are Hospice Staff Being Educated to Engage Racially and Ethnically Diverse Patients?”,
che si pone l’obiettivo di inquadrare e definire la situazione della formazione sui temi
dei rapporti inter-etnici e interculturali all’interno degli hospice tra personale e ospiti.

Lo studio ha coinvolto 197 hospice pubblici e privati americani, il 73% dei quali offre una formazione specifica su tematiche culturali, nella convinzione che «migliori le conoscenze e le capacità dei professionisti sanitari nei confronti di pazienti provenienti da contesti geografici e culturali diversi e sia associata a un aumento della soddisfazione da parte di pazienti e caregiver».

90% la media delle persone degli staff di ogni struttura coinvolte in attività di formazione culturale

73% gli hospice che offrono allo staff un training specifico sulle competenze culturali

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