
Nella pratica, parliamo di un futuro già presente. L’applicazione più significativa riguarda le capacità prognostiche dei sistemi avanzati di machine learning,
che sulla base dei dati disponibili riescono a identificare i pazienti maggiormente a rischio di declino rapido, per i quali si può quindi intervenire con una presa
in carico anticipata da parte delle Cure Palliative. In questo modo, si può assicurare loro benefici tangibili in termini di qualità della vita, affrontare con tempistiche corrette la pianificazione condivisa delle cure, avere a disposizione il “tempo psichico” necessario per instaurare una relazione e accompagnarli per mano verso la consapevolezza del percorso che stanno affrontando. Uno scenario interessante sembra essere l’esperienza sperimentale di Reggio Emilia, dove nell’ambito della IRS è stata attivata la sperimentazione
di un’applicazione di IA che incrociando dati, valori, parametri riesce a indicare alle équipe di cura l’evoluzione della malattia di un paziente e quindi la sua candidabilità alle Cure Palliative.
Di fatto, non cambia; semmai si amplifica. L’IA, per quanto intelligente ed evoluta, resta uno strumento che deve essere funzionale al medico e all’équipe. Sono dati in più,
e più raffinati, che possono supportare le riflessioni e le decisioni. Il livello decisionale resta al curante ed è l’”umano” che continua a detenere
il pensiero critico necessario a personalizzare la cura in funzione del bisogno. Se rispetto alle esigenze specificatamente mediche la macchina può essere più veloce e precisa nell’elaborare dati, la persona-paziente è un insieme di bisogni e segnali che superano il dato tecnico. È fatta di pensieri, preoccupazioni, desideri, relazioni, convinzioni, tutti elementi che – almeno per ora – l’IA non è in grado di cogliere e contestualizzare insieme alla biografia della persona.
Da quando esiste Google, ci siamo ormai abituati a pazienti che arrivano da noi già con la “diagnosi in tasca”. Questa tendenza è sicuramente cresciuta con l’accesso aperto a sistemi
come ChatGPT. Di conseguenza, cresce per il curante lo spazio di negoziazione tra le nozioni che il paziente e i familiari portano con sé ai colloqui e l’interpretazione supportata da elementi scientifici, dalla competenza, dall’esperienza propria del medico e
dell’équipe di cura. Una negoziazione spesso complicata, perché l’algoritmo tende a dirci ciò che vogliamo sentirci dire, produce risposte alle nostre query con lo scopo di darci conferme, non di mettere in dubbio il nostro pensiero o aprirci nuovi punti di vista. Il curante invece dice quel che – in scienza e coscienza – ritiene giusto per il paziente. Deve essere attento, sensibile e comprensivo, mai accondiscendente.