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Nell’orizzonte d’azione sempre più ampio delle cure palliative, quello della social media analysis e del social media listening (tracciamento delle conversazioni online attorno a specifiche parole chiave) è un ambito ancora poco esplorato: essere un influencer di successo non è per il momento un’abilità richiesta a medici, infermieri o alle équipe multidisciplinari. Per ora, appunto.
Perché, inevitabilmente, se è vero che le piattaforme di comunicazione digitale sono ormai lo spazio in cui si riversa ogni aspetto della vita, è naturale che l’osservazione di questo meta-mondo sia sempre più necessario per leggere con occhiali nuovi bisogni, interrogativi, paure e vissuti di pazienti, famiglie e caregiver. Persone in situazioni di fragilità dovuta a contesti di malattia che in molti casi non trovano altri spazi per esprimersi o che il filtro dei social rende più espliciti.
Secondo i sociologi, questa non è altro che una conseguenza di quel processo di “privatizzazione del lutto” portato dalla contemporaneità. Se prima la malattia grave e il lutto erano temi partecipati dalla comunità, oggi il dolore costretto tra le pareti domestiche viene trasposto dai diari personali a quel grande “diario privato” (ma globale) rappresentato dai social network.
Come questi canali informali di comunicazione possono essere utili per raffinare le risposte che la pratica della cura mette oggi in campo?
«Per rispondere al quesito bisogna partire non dai dati con cui si misurano oggi i flussi dei social network, ma da una riflessione antropologica», dice Matteo Asti, studioso dei media, docente dell’Hdemia SantaGiulia e dell’Università Cattolica di Brescia:
«Il dolore, di fronte alla malattia inguaribile o alla morte di una persona cara, è un elemento ambivalente: da un lato, è un’esperienza totalmente individuale, intrasferibile; dall’altro, se comunicato, consente di essere elaborato. Un post su un social è forse il modo più efficace per fare sintesi di questi due aspetti».
«I familiari, in particolare i genitori di bambini in situazioni di malattie gravi o già in carico alle cure palliative pediatriche, portano sui social tre esigenze: avere un supporto informativo, che ricevono per lo più attraverso il confronto con esperienze di altre famiglie che vivono situazioni simili; avere un supporto emotivo e sentire che mettendo in condivisione la propria esperienza possono essere in qualche modo
di aiuto ad altri genitori. In generale, il caregiver dai social si aspetta una sorta di rinforzo positivo. È quella stessa “gratificazione del like” che cerca chiunque pubblichi un post», spiega Asti, «ma in questi casi il rischio è che la mancata gratificazione si innesti su situazioni di grande fragilità emotiva e psicologica, e quindi possa produrre un danno. Può aumentare il senso di solitudine, di esclusione che i familiari di un paziente in cure palliative, soprattutto i genitori di pazienti pediatrici, vivono nella realtà. Forse è questo il punto di partenza se si pensa a come le équipe di cure palliative possono affrontare il tema dei social: affiancare le famiglie nel gestire in maniera equilibrata la ricerca di conforto online. Non lasciarli soli rispetto a un mondo che può essere confortante, ma anche feroce».
Procedendo nel dettaglio dell’analisi si nota come anche in questo particolare ambito cresca l’utilizzo di Instagram, social basato sull’immediatezza dell’immagine, «e aumenti il rischio di spostamento tra la realtà del vissuto e la sua rappresentazione», dice Asti.
«In maniera conscia, ma spesso anche inconscia, attraverso questo canale i genitori tendono a mostrare momenti di gioia, conquiste positive, realizzazioni quotidiane, innescando degli stereotipi: passa il messaggio che questi genitori e i loro figli malati siano quasi dei supereroi. Questo è emotivamente comprensibile, ma rischia di essere disfunzionale rispetto ai reali bisogni delle famiglie che affrontano fasi drammatiche della vita dei loro figli. Nell’ambito accademico anglosassone si sta lavorando all’analisi di tutte queste dinamiche e alle ricadute, soprattutto sulle famiglie e sui pazienti; in Italia è un campo ancora pionieristico».
Così come è ancora in fase embrionale l’approccio del mondo della cura nel mettersi in gioco e capire come poter essere presenti in maniera utile ed efficace sulle piattaforme social, sia per intercettare bisogni informativi, e soddisfarli in maniera accessibile, sia per gestire i rimbalzi emotivi e psicologici che i social generano su pazienti e caregiver. «Le strutture guardano questo mondo ancora con un certo distacco, mentre si può notare una crescita della presenza e del presidio tematico da parte di professionisti soprattutto giovani, e in particolare di ambito infermieristico, che iniziano a muoversi attraverso i social e a diffondere elementi di consapevolezza.
Nel mondo Anglosassone ci sono – chiamiamoli così – degli influencer di settore, professionisti che hanno trovato modi e linguaggi per portare i temi delle cure palliative e delle cure palliative pediatriche sui social senza cadere in quella che è la trappola più naturale, ovvero la spettacolarizzazione del tema», conclude Asti. «Il “come” esserci, insomma, è ancora da definire, ma il fatto che sia importante esserci è una certezza. E il mondo delle cure palliative, con la sua capacità di rompere gli schemi e tracciare prospettive inedite, può senza dubbio fare da apripista».