Cura

La forza fragile della consapevolezza

Illusione, speranza, angoscia. Si gioca all’interno di questo triangolo di condizioni emotive e psicologiche il delicatissimo percorso lungo il sentiero della consapevolezza che pazienti e caregiver compiono dentro la parabola di una storia di malattia che spesso, nell’ambito delle cure palliative, ha tempi brevi o brevissimi.
Ovvero la tensione verso un allineamento armonico tra la conoscenza dello stato di avanzamento della malattia e l’accettazione, l’interiorizzazione di ciò che significa rispetto al vissuto di ogni minuto, di ogni ora, di
ogni giorno.
«Gran parte di ciò che ho appreso sulla consapevolezza lo devo alle cure palliative», confessa Giulio Costa, da pochi mesi Responsabile del Servizio di Psicologia della Fondazione Hospice Seràgnoli: «Prima di lavorare in questo ambito, da psicologo, non mi ero mai soffermato davvero sulla distanza, sul vuoto che si apre tra due parole che a un primo sguardo paiono quasi sinonimi: conoscenza e consapevolezza». È un’esperienza comune: tutti coloro che sono in salute sanno che un giorno moriranno, a livello razionale ne hanno conoscenza. Ma che ne è di questa conoscenza, tutto sommato astratta, quando ci troviamo toccati dalla malattia, magari con prognosi infausta? Attraverso quali meccanismi interiori questa conoscenza può diventare consapevolezza, e come fare in modo che il processo di consapevolezza possa essere risorsa per affrontare il trauma e l’angoscia della malattia e del fine fine vita?

«Il tema della consapevolezza ci porta direttamente alla complessità della singola persona e della sua cerchia
di relazioni. Molti pazienti e familiari che prendiamo in carico in Fondazione per un percorso di cure palliative
“conoscono” la loro condizione, ma non ne sono sufficientemente consapevoli. E, nonostante i tanti studi e protocolli, non esiste un misuratore che ci consenta di dire quando il livello di consapevolezza sia un bene o un male. La consapevolezza è un vestito sartoriale che bisogna cucire con pazienza ogni giorno», spiega Costa.
Pur in questa estrema imponderabilità, di sicuro c’è un fatto: la ricerca clinica ci dice che in un percorso di fine vita, quando ci sono un paziente e un sistema familiare consapevoli, la qualità del tempo residuo ne beneficia.
Non ci sono però percorsi predeterminati o relazioni di causa-effetto.
«Dobbiamo fare in modo che paziente e caregiver raggiungano momento dopo momento il grado sufficiente per gestire il carico di angoscia, anch’esso progressivo. Se noi curanti carichiamo troppo un interlocutore non ancora preparato, la comunicazione diventa iatrogena, ovvero causa di un malessere ulteriore.
Genera un’angoscia tale che distrugge il paziente, oppure produce una dissociazione: di fronte all’eccesso di consapevolezza la nostra psiche attiva un meccanismo di sopravvivenza, la rifiuta per non essere schiacciata
dall’angoscia».
Gestire questa approssimazione sartoriale verso una progressiva “consapevolezza sostenibile” fa parte del delicato lavoro degli psicologi e, tramite la loro mediazione, dell’intera équipe di cura. «Ciò che ci orienta è il “senso” della comunicazione e quindi non il “cosa” si comunica ma il “perché” lo si comunica», entra nel merito Margherita Galli, psicologa della Fondazione Hospice Seràgnoli. «È importante cercare sempre di chiedersi e comprendere quale sia il significato che si cela dietro a un’affermazione o a una domanda del paziente e/o del caregiver, così come è importante che l’operatore si domandi ogni volta quale può essere l’impatto della propria comunicazione in modo che non risulti traumatica. Infatti, affinché la comunicazione diventi un atto di cura profondo e non sia invece un moto puramente informativo è importante lavorare su elementi come l’assenza di giudizio, l’adeguatezza del lessico in relazione alla persona con cui si parla, porre domande di approfondimento, riformulare il pensiero altrui per accertarsi di aver compreso correttamente ciò che è stato comunicato, osservare il linguaggio non verbale e prestare attenzione al feedback dell’interlocutore, partendo sempre dalla premessa che ogni atto comunicativo ha per sua natura una struttura circolare». L’immagine che propone Giulio Costa per visualizzare questa dinamica è quella della danza: la coreografia della consapevolezza è un delicato prendersi per mano fatto di parole, sguardi, posture ed espressioni, che coinvolge équipe, paziente e caregiver. «Proviamo magari a dar voce o far emergere alcuni contenuti, osserviamo le reazioni e su quelle ci riallineiamo. Attendiamo quelle aperture che nei modi più diversi arrivano dal paziente o da un familiare. Bisogna sapersi mettere in ascolto, perché dall’altro emergono sempre elementi che ci fanno comprendere quale sia il livello di desiderio rispetto alla consapevolezza. E quando si manifestano questi segni, anche minimi, dobbiamo saperli cogliere e condividerli con tutti i membri dell’équipe», spiega Costa. «In questo percorso la cura dello psicologo sta anche nel saper leggere, attraverso le richieste di un paziente e della sua famiglia, quali possono essere le reali domande e desideri che sta cercando di comunicare, e che suggeriscono ai curanti il grado di elaborazione della propria consapevolezza. Talvolta può capitare che certe manifestazioni di angoscia o di dolore da parte dei pazienti e dei loro famigliari non vengano condivise con lo psicologo, ma con altri membri dell’équipe, come un Oss, un infermiere o il fisioterapista, che devono pertanto essere in grado di accoglierle e riportarle in équipe affinché si costruisca una lettura compiuta e torni al beneficio del paziente». Per questo motivo, aggiunge Margherita Galli, «è fondamentale che le competenze nel relazionarsi con pazienti e familiari siano trasversali a tutti gli operatori: noi psicologi cerchiamo di trasferirle quotidianamente in occasione di momenti strutturati e dedicati – come il briefing, le supervisioni o i corsi di formazione – sia durante momenti più informali di confronto e condivisione che si verificano regolarmente nell’attività assistenziale quotidiana».

 

UN ESERCIZIO DI RESILIENZA
La consapevolezza non come condizione utile ad affrontare meglio il momento della morte, ma come strumento e guida per vivere una vita più piena, anche quando il senso della fine sfugge perché è ancora lontano, non è ancora un’ipotesi che entra nell’orizzonte dei nostri pensieri e delle nostre urgenze. È questo l’insegnamento che si guadagna dalla lettura di “L’ultima nascita”, saggio (del 2015, ma mai invecchiato) attraverso il quale Ines Testoni, docente di Psicologia Sociale e Psicologia delle relazioni di fine-vita, perdita, morte presso l’Università di Padova e Direttore del master “Death Studies and The End of Life”, ci accompagna attraverso i significati e la storia della “cultura del morire”. Un volume che costituisce ormai un riferimento all’interno del filone – per lo più anglosassone – della Death Education, patrimonio culturale che consente alle persone, secondo Testoni, di «diventare adulte e responsabili».L’analisi e la narrazione di “L’ultima nascita” consentono di rinsaldare gli ancoraggi psicologici necessari per riconoscere i profili dell’angoscia, prevenire i fattori scompensanti del lutto patologico ed elaborare i vissuti di perdita a tutte le età, in particolare durante l’adolescenza, quando è maggiore il rischio di condotte autolesive e ideazioni suicidarie e rimane ancora indefinita la tassonomia di gravità delle esperienze. Un buon esercizio di resilienza, che Ines Testoni prospetta nella sua completa ricognizione dei Death Studies, ma che ritiene essenziale integrare, durante l’iter scolastico, con un potenziamento della competenza spirituale, ossia con una riflessione sul significato della caducità e della finitudine che coinvolga la dimensione intrinseca dell’individuo, al di là di ogni regolamentazione confessionale. Per sottrarre l’inevitabile alla presa devastante dell’emergenza bisogna, fin da piccoli, educare al dolore supremo linguaggi e comportamenti: solo così «chi muore non è abbandonato enon abbandona nessuno».

Ines Testoni, L’ultima nascita,
pp.208, ed. ISBN, 2015

Intervista a

Giulio Costa

Responsabile del Servizio di Psicologia della Fondazione Hospice Seràgnoli

Margherita Galli

Psicologa della Fondazione Hospice Seràgnoli

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