Cura, Incontri

Una lingua comune per riconnettere i pazienti al mondo

Tre letti, una stanza nel reparto di terapia intensiva di un ospedale che potrebbe essere uno qualsiasi. Al centro della scena, loro, “i pesci rossi”. Ovvero quei pazienti che finiscono in questo spazio sospeso tra la vita e la morte, immobili e silenziosi, attaccati a macchine, cannule, sondini, sensori, a osservare la vita che scorre intorno a loro e quella, tumultuosa, che esplode all’interno dei loro pensieri. Cosa sognano i pesci rossi è un racconto che dalla prima all’ultima pagina corre su questo crinale sottilissimo. Ed è su questo filo sospeso che va in scena la commedia umana della quotidianità, ripresa da diversi punti di vista, a partire da quello dei due protagonisti, un medico dalla vita privata disintegrata che affronta il suo mestiere tra continui interrogativi e disincanto e un paziente finito in condizioni complicate dopo il fallimento di un difficile intervento chirurgico oncologico.
Tanto che non si percepisce quale sia il punto di vista dell’autore e questo è straordinario. Chi scrive però, lo sappiamo, è un medico, Marco Venturino, Direttore del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Istituto Europeo di Oncologia. Che quindi racconti così bene, e spesso in maniera spietata, i punti di vista degli operatori sanitari ce lo aspettiamo. Che racconti altrettanto bene il punto di vista dei “pesci” (e della loro cerchia di affetti) è invece sorprendente.

Come matura, in un medico, questa immedesimazione/ empatia con il paziente?
Se l’osservazione del paziente è ben condotta – e nel mio caso il trascorrere di tante ore di guardia in reparto, nell’alternanza tra momenti di attività frenetica e altrettanti di non-attività, se non quella di controllo delle condizioni cliniche del paziente che genera un vero e proprio studio comportamentale di quest’ultimo – non si può che giungere a vedere cosa sia realmente la malattia. Senza interpretazioni scientifiche, senza il distacco clinico, senza illusioni terapeutiche. Si riesce a percepire molto bene l’angoscia, il dolore, la noia, la solitudine, la preoccupazione, la speranza e la disperazione che di volta in volta colorano l’esperienza del malato. E una volta ottenuta questa percezione non si può non chiedersi: “ma se fossi io al suo posto? Se fossi io in quel letto a vivere quell’esperienza’?” Ecco, credo l’empatia nasca proprio da qui.

Quello che il medico affronta ogni giorno è un dialogo con la vita, o, piuttosto, un dialogo con la morte?
Il dialogo con la vita non può prescindere dal dialogo con la morte. Lo illustra molto bene Saramago nel suo Le intermittenze della morte. Direi di più, la vita può dare un senso alla morte così come la morte può dare senso alla vita. È un legame indissolubile.
Il grande problema culturale delle nostre civiltà occidentali tecnologizzate e oltremodo industrializzate è aver dimenticato questo legame con la morte, cercando di esorcizzarla nell’illusione di una eternità biologica assolutamente falsa.

La cosa incredibile è che la morte è l’unica certezza della vita, eppure ne prendiamo consapevolezza solo quando “tocca a noi”. Vale anche per il medico, che invece frequenta questa certezza ogni giorno?
Per alcuni specialisti questa consapevolezza del morire è un po’ più facile perché la frequentazione con la morte è più stretta ma, ripeto, l’esorcismo culturale ha impatto anche su questi ultimi. D’altro canto, già un po’ di anni fa Elisabeth Kubler Ross scriveva nel suo La morte e il morire: “Credo che dovremmo prendere l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte e al morire prima di incontrarla nella nostra vita professionale… Il medico dovrebbe innanzitutto esaminare il suo atteggiamento personale verso il tumore maligno e la morte, in modo da poter parlare di questi gravi argomenti senza eccessiva ansietà”. Ammonimento che vale oggi come allora.

Si ha l’idea che la condizione della malattia e la “costrizione” della stanza d’ospedale siano il regno della stasi. Le dinamiche tra i personaggi del libro dicono che così non è.
Più che tra stasi e movimento credo il vero dualismo sia quello di luogo. Ovvero il malato rispetto al sano, parente o curante che sia, approda con la malattia in un luogo diverso dove tempo, spazio, valori, aspettative, sogni e perfino desideri parlano una lingua differente. E la difficoltà, direi la solitudine che spesso angoscia chi è malato, è trovare una lingua comune, una traduzione che possa far dialogare e, quindi, comprendere e addirittura compartecipare gli abitanti di questi due luoghi diversi. Una traduzione capace di accogliere la distanza.

A un certo punto Gaboardi, il medico protagonista, si chiede: «Capire se noi siamo i buoni oppure i cattivi. E non è così facile stabilirlo». Come si risponde a questa domanda?
Direi che non è una domanda, ma è già la risposta. Non è semplice capire se si stia andando nella direzione giusta o in quella sbagliata. Se siamo all’altezza oppure no, se si sta facendo il bene del paziente oppure no. Esattamente come in tutte le azioni della vita. Io ho sempre invidiato, ma mi fanno anche un po’ paura, quelli che hanno la certezza di essere sempre nel giusto, di agire sempre per il bene. Il medico non è un uomo diverso dagli altri: fa una professione diversa, tutto lì.

Altra frase. «Abbiamo fatto il possibile, ma chi è che stabilisce il limite?». La tecnologia medica sta spostando sempre più in là questo limite. Il campo del possibile. Qual è la discriminante, oggi, che segna il limite?
Non è la tecnologia che stabilisce il limite, il limite siamo noi. Con la nostra capacità, il nostro impegno, le nostre manchevolezze. Dobbiamo modificare il paradigma della medicina che non è il mandato di guarire, ma quello di curare. Curare nel senso di prendersi cura e così il limite diventiamo noi perché se guarire non è sempre possibile curare lo è, e dipende solo da noi.

Questa domanda ne apre un’altra e dà l’assist al tema delle cure palliative. Nel suo racconto sembrano essere il grande assente. Si resta ostinatamente, fino all’ultimo, nel perimetro dell’ospedalizzazione, meccanica e paradossale. Perché?
Proprio perché la medicina di oggi fa sempre più fatica a cambiare il paradigma di cui sopra. E ritorniamo all’esorcismo della morte da cui consegue poi l’esorcismo della vecchiaia, della menomazione, della fragilità… Sempre giovani, efficienti e proiettati verso l’eternità è il motto della nostra società. Ma non è così: noi invecchiamo, perdiamo efficienza e siamo a termine. Le cure palliative vengono ancora considerate come le cure di quando non c’è più niente da fare. Invece c’è ancora molto da fare, c’è da prendersi cura. Che non è poco.
Tutti speriamo nella guarigione ma tutti abbiamo diritto alla cura perché, lo ripeto, il mandato della medicina non è guarire bensì curare. Questo non vuol dire rinunciare a guarire ma proseguire oltre, continuare il mandato anche quando guarire è impossibile. E questo è il compito delle cure palliative.

Marco Venturino

Direttore del Reparto di Anestesia e Rianimazione dello IEO - Istituto Europeo di Oncologia, di Milano

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