Solidarietà

Nessuna impresa è un’isola

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso».

Così scriveva John Donne, nella frase resa poi celebre da Ernest Hemingway che la scelse per l’epigrafe del suo romanzo “Per chi suona la campana”. Un invito alla riflessione che ancora risuona attuale quando ci esorta a percepire la nostra esistenza come sensata solo se parte di una dimensione più ampia, cui tutti apparteniamo: siamo capaci di significato solo se entriamo in connessione con l’altro.

Certo, un paio di secoli fa il riferimento diretto era alla dimensione intima ed esistenziale. E certo, in entrambe le declinazioni si richiamano momenti storici caratterizzati da urgenza e crisi di passaggio, il che in qualche misura ci avvicina ai tempi che viviamo anche oggi. Se volessimo allargare lo sguardo ad una prospettiva imprenditoriale, la domanda che potremmo farci sarebbe: se a “uomo” sostituissimo “impresa”, cosa cambierebbe? Stando alle teorie più attuali in materia di responsabilità sociale, poco o nulla.

Un’impresa oggi, proprio perché naviga in acque sempre in mutamento e in un ambiente così permeabile alle relazioni, non può non contemplare nella propria vita e nelle proprie scelte la condizione di interconnessione con l’ambiente che la circonda.

Già Henry Ford sosteneva agli inizi del secolo scorso che “a business that makes nothing but money is a poor kind of business”. E quindi, per differenza, un business che non genera solo denaro è un business ricco. Il che, se ci pensiamo, suona rivoluzionario per i tempi anche nell’estensione del concetto.

Un’azienda che – oltre a generare profitto – si occupa anche dell’ambiente in cui vive e produce, fa del bene agli “altri” e anche al proprio business. L’evoluzione attuale del concetto è quella della “buona cittadinanza d’impresa”, fino ad arrivare al termine anglosassone purpose, che estende la portata degli obiettivi d’azienda alla ricerca di un valore condiviso con la collettività, che mentre produce un bene più ampio contribuisce anche alla costruzione di valore per sé.

Detto in altri termini, fare bene impresa significa (anche) occuparsi di altro, degli altri e occuparsi degli altri migliora il proprio business. Secondo il report di Dinamo Academy “Corporate Giving in Italy”, che traccia la propensione verso la filantropia strategica in ambito corporate nel nostro Paese, il 42% delle aziende italiane considera l’impegno filantropico parte di un più ampio disegno di impatto sociale all’interno del contesto entro cui opera, in allineamento con le priorità di mercato. Fare del bene diventa così parte integrante del DNA dell’impresa e, se declinato in linea con la propria identità, porta beneficio in termini di posizionamento, riconoscibilità presso il pubblico esterno, reputazione e, nei casi particolarmente virtuosi, anche punti percentuali nelle quote di mercato.

Si tratta di un viaggio che spesso conviene fare insieme, imprese profit e organizzazioni non profit; si può scegliere di arrivare non lontano da casa, per curarsi del proprio territorio e vederlo crescere, oppure di avviarsi per una avventura più lontana, che estenda lo spazio di riferimento oltre il primo orizzonte.
Come accade alle persone, la qualità di chi ci accompagna – e quindi delle organizzazioni che l’azienda sceglie di sostenere – determinerà la felicità del viaggio. Perché, tornando a John Donne, “ogni uomo (ogni impresa) è un pezzo del Continente, una parte della Terra”.

 

Uniti per fare Grandi Imprese

Uniti per fare Grandi Imprese” è il progetto della Fondazione Hospice dedicato alle aziende. Aderire a questa iniziativa significa collaborare fattivamente alla costruzione di una buona cultura delle cure palliative e insieme sostenere i progetti di assistenza, formazione e ricerca promossi dalla Fondazione Hospice. Un modo concreto per tradurre l’impegno di Responsabilità Sociale a beneficio del territorio.

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